Hiroshige: come nasce un capolavoro

Se non l'avete già fatto leggete il resoconto della mostra Hiroshige, il maestro della natura scritto da Manuela. Capirete meglio quello che sto per scrivere.

Ho avuto la fortuna di poter visitare dopo la mostra di Hiroshige a Roma anche il Museo van Gogh di Amsterdam, e pochi giorni dopo di poter ritornare a Roma per una seconda visita al Museo del Corso. In occasione di questa ultima visita, con la gentile collaborazione della Fondazione Roma che gestisce il Museo, che ha autorizzato la ripresa delle immagini non provenienti dal catalogo, sono stati preparati gli articoli che state leggendo.

Devo dire che è stata una esperienza unica ed emozionante: lo studio su testi e fonti convenzionali non può sostituire l'osservazione diretta dei capolavori, ed il confronto tra opere depositate in località molto distanti, ad Amsterdam come abbiamo detto le opere di Van Gogh e presso l'Honolulu Academy le stampe esposte a Roma, raramente è possibile a così breve distanza di tempo, quando ancora la memoria ha vividi ricordi di quanto impresso nella retina.

 

Va detto subito che l'interesse di Vincent van Gogh verso l'arte giapponese non è stato casuale né episodico. Il grande artista fiammingo era come noto praticamente autodidatta e restìo ad accettare le regole dell'apprendimento e benché nato in una famiglia ricca di artisti rivelò tardi la sua vocazione. Quindi accolse con entusiasmo la possibilità di attingere ispirazione da una scuola che privilegiava l'osservazione attenta della natura e la composizione istintiva alle lunghe sedute in studio.

Fu facilitato dall'avere vicino il fratello Theo, che esercitava il mestiere familiare di mercante d'arte che lo stesso Vincent aveva iniziato con profitto in gioventù.

Theo era non solo venditore ma anche estimatore e collezionista di stampe giapponesi e trasmise questa passione al fratello, che sullo sfondo di numerose opere dipinte ad Anversa collocò delle stampe della sua collezione. Durante il loro cosidetto "periodo parigino" - 1886-1888 - Vincent e Theo van Gogh organizzarono la prima esposizione in assoluto di opere ukiyo-e, presso il locale Le Tambourin di proprietà di Agata Segatori.

In seguito, una delle motivazioni che spinsero Vincent van Gogh a trasferirsi ad Arles fu proprio la ricerca del "colore del Giappone", che in quella località gli sembrava possibile ritrovare. Purtroppo il male che lo corrodeva dall'interno non lasciò a van Gogh il tempo di esprimersi appieno. Nel 1890 poneva termine ai suoi giorni, all'età di 37 anni, mentre Theo si spegneva sei mesi più tardi di malattia.

La vedova di Theo van Gogh, Johanna, dedicò gran parte della sua vita al recupero ed alla valorizzazione delle opere del cognato, ed il nucleo della collezione del Museo van Gogh di Amsterdam è formato dalla sua donazione. Sono lì esposte quasi tutte le opere che hanno tratto ispirazione dalle stampe giapponesi. Non solamente da Hiroshige, ricordiamo La Cortigiana da Eisen, e non solamente copie ma anche temi originali trattati "alla giapponese" come Il seminatore (Arles, novembre 1888), Il pesco rosa (Arles, aprile 1888) o Barche da pesca a Les Saintes Maries de la mer (Arles, giugno 1888).

 

Vincent van Gogh:
Albero di susino in fiore (da Hiroshige)
Parigi, estate 1887, olio su tela
55 x 46 cm
V. v. Gogh Foundation Collection, # S115

 

Non c'è bisogno di sottolineare che in questa opera van Gogh riprende un capolavoro di Hiroshige che abbiamo ormai imparato a conoscere bene: il Giardino dei susini di Kameido.

La versione di van Gogh presenta ovviamente caratteristiche differenti motivate dalla tecnica ad olio utilizzata. Nelle pagine seguenti potrete conoscere in dettaglio la tecnica dell'ukiyo-e ed in particolare proprio i passaggi necessari per produrre una copia di questa stampa.

 

 

 

 

 

 

Vincent van Gogh:
Il ponte sotto la pioggia (da Hiroshige)
Parigi, estate 1887, olio su tela
73 x 54 cm
V. v. Gogh Foundation Collection, # S114

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Hiroshige:
Ohashi. Acquazzone ad Atake
Serie: Cento vedute di luoghi celebri di Edo
1857, nono mese
360 x 237 mm
HAA 06445

 

 

 

 

 

 

 


 

La tecnica di Hiroshige

La silografia, che si pensa sia nato proprio in Giappone intorno all'VIII secolo per arrivare in Europa solamente nel XIV, è la tecnica di trasposizione di un disegno a rilievo sopra una matrice in legno, che verrà poi inchiostrata permettendo la riproduzione dell'opera in alcune centinaia di esemplari, prima che il deteriorarsi della matrice la renda inservibile.

La tecnica prese vie diverse nelle diverse culture. In occidente per permettere tiraggi maggiori si passò prima all'utilizzo di matrici in legno più duro, di difficile lavorazione ma più resistenti, e poi all'utilizzo di matrici in metallo su cui il disegno veniva riportato non scalpellando a mano ma incidendo mediante acidi.

In Giappone il maestro Moronobu iniziò nel XVII secolo ad Edo la rappresentazione di quei soggetti che venivano definiti in ambito religioso ukiyo-e (憂き世 immagini del mondo della sofferenza) ossia situazioni tipiche di chi non ha facoltà di liberarsi dalle proprie passioni. Successivamente venne orgogliosamente rivendicata quella che sembrava una menomazione ed il termine ukiyo-e (浮世絵 immagini del mondo fluttuante) che utilizza differenti kanji fu quello che passò alla storia. Fu più tardi il maestro Haronobu a sviluppare la tecnica nishiki-e che permetteva l'utilizzo del colore mediante più matrici che venivano successivamente trasferite sulla carta.

Questa tecnica venne via via perfezionata, fino a prevedere anche 15 successivi passaggi prima di arrivare al risultato definitivo, ma verso la metà del XIX secolo delle severe leggi suntuarie tentarono di limitare il procedimento a non più di 7/8 passaggi. Il sistema nishiki-e oltre a permettere l'introduzione del colore, e con effetti suggestivi non consentiti da altri sistemi di riproduzione, permetteva di produrre differenti versioni dello stesso soggetto mediante apposizione di strati di colore differenti. Ecco infatti una suggestiva versione notturna del giardino dei susini di Kameido.

 

Kameido, il giardino dei susini

Serie: Cento vedute di luoghi celebri di Edo

1857, undicesimo mese

363 x 247 mm

 

Seguiamo ora, attraverso la documentazione esposta nella mostra di Roma, le varie fasi della lavorazione di una stampa: il giardino dei susini di Kameido, di cui abbiamo già parlato e che il lettore già ha visto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Prima di tutto converrà parlare degli strumenti utilizzati dagli ignoti artisti che provvedevano a trasportare sulla carta, seguendo precise indicazioni dell'autore e dell'editore, la matrice.

Il disegno approvato per l'esecuzione della stampa veniva affidato ad un maestro incisore, che lo incollava su una tavola di legno tenero e provvedeva ad asportare la superficie lasciando intatto il contorno, in modo da avere una matrice in positivo del disegno, e poi altrettante matrici per ogni strato di colore che si prevedeva di applicare.

Utilizzava a tale scopo una serie di scalpelli e sgorbie in tutto simili a quelli in uso in Europa.

 

 

 

 

Matrice di base per stampa
Utagawa Hiroshige

245 x 410 mm
HAA 14108

Possiamo osservare, nell'angolo inferiore a sinistra,  i segni dello scapello che hanno evidentemente asportato il timbro dell'editore, in occasione di una ristampa. E' verosimile che sia stata preparata una nuova matrice per apporre i timbri del nuovo editore e della censura.

 

 

 

 

 

Bagliore del tramonto a Seta
Serie: Otto scenari di Omi
1834 circa
da Wikimedia

 

Questa è una stampa relativa alla matrice precedente. Rappresenta il lungo ponte Seta Karahashi sul lago Biwa. lungo il cammino del Tokaido. Naturalmente la matrice imprime sulla carta una immagine speculare rispetto all'originale.

 

 

 

 

 

 

I colori utilizzati erano in polvere, e prevalentemente di origine vegetale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Venivano stesi sulla matrice mediante pennelli e premuti sulla carta tenuta a registro con appositi tamponi, in modo che l'inchiostro vi si trasferisse.

 

 


 

 

Ecco sotto a sinistra come si presenta la stampa dopo il primo passaggio, in cui vengono riportate sulla carta solamente le linee del disegno.

A fianco il risultato finale, che avevamo già avuto modo di ammirare.

 

 

Il secondo passaggio: una tonalità ocra

Rempie i fiori di susino e poco altro


 

 

 

Le sfumature di colore si ottengono con passaggi successivi

 

Terminata la prima "serie" di strati di colore, tutte sul rosso, ora è la volta del blu

 

 

Che sono necessarie anche per aggiungere profondità e tridimensionalità alla stampa

 

 

 

 

 


 

 

Vediamo come nasce una importante raccolta, una delle maggiori a livello mondiale. I capolavori esposti nella mostra di Roma provenivano dalla raccolta della Honolulu Academy of Arts, alimentata prevalentemente dal lascito del famoso scrittore anglosassone James Michener, autore tra l'altro di numerosi romanzi ambientati nell'estremo oriente.

 

Hiratsuka Unichi (1895-1997)
Ritratto di James A. Michener

1957
HAA 24493a
(foto di Tim Siegert)

Michener rivela di avere cominciato ad apprezzare relativamente tardi l'arte del maestro, di cui aveva scritto: "l'opera di Hiroshige non ha su di me il fascino che ha per la maggior parte dei collezionisti." Questa sua opinione era giustificata dalla scadente esecuzione di molte stampe sul mercato: Michener affermava che nessun altro maestro aveva avuto una percentuale di riuscita così bassa, essendo veramente rare le stampe che si distaccavano dalle altre per qualità di esecuzione. Probabilmente le opere di Hiroshige furono vittime del loro successo, che spinse gli editori a riutilizzare matrici già oltre il termine della loro vita utile, e per giunta manipolate per sostituire il timbro dell'editore e quello della censura od altri particolari di contorno, come abbiamo già visto.

Eppure era di Hiroshige la prima stampa giapponese in assoluto che Michener ebbe modo di ammirare, ricordando nel suo scritto Japanese Prints (1959): "Credo di avere intuito allora tutto quanto avrei scoperto un giorno sugli ukiyo-e." Fu l' inizio di una passione che dopo quel momento di raffreddamento di cui abbiamo parlato, tornò ad accendersi e durò per tutta la vita.

 

 

 

Si trattava della stampa conosciuta come Mii no bansho, ossia Campana serale al tempio di Mii.

Campana serale a Miidera
Serie: Otto scenari di Omi
1834 circa

 

La collezione di Michener trovò la sua destinazione finale in circostanze talmente banali da sfiorare il paradossale e apparire frutto di una fantasia spropositata: sembrerebbero uscite da uno dei romanzi stessi del collezionista.

Avendo già deciso di lasciarla al Metropolitan Museum of Art di New York, vi si recò per prendere accordi parcheggiando regolarmente la sua macchina negli spazi appositi. Ciò malgrado un poliziotto intervenne e lo multò per sosta vietata, rigettando bruscamente ogni obiezione. Fu tale l'irritazione di Michener che decise seduta stante che New York non avrebbe avuto le sue opere. Il destino volle che qualche tempo dopo, nel corso di una visita alla Academy di Honolulu, un altro poliziotto si dimostrasse al contrario estremamente cortese nell'aiutare Michener nel parcheggio. Come andò a finire, ormai il lettore lo può comprendere immediatamente.

Non si creda però che Michener abbia agito d'impulso, solo sulla base di questi episodi casuali. I suoi legami con le Hawaii, dove è ambientato un suo famoso romanzo e dove visse per alcuni anni, erano profondi, e trovava deplorevole che una cultura che doveva tanto all'Asia ed al Giappone fosse priva di opere d'arte che permettessero di rendere possibile il sogno di Anna Rice Cooke, fondatrice della Academy, che così scriveva nel 1927: "Che i nostri figli di diverse nazionalità e razze, vivendo lontani dai centri dell'Arte, possano farsi un'idea delle rispettive tradizioni culturali e conoscere gli ideali incarnati nell'arte di altri popoli loro vicini."

 

La sede della Honolulu Academy of Arts
foto: www.honoluluacademy.org

 

 

 

 

 

La spada del samurai: arma ma soprattutto simbolo di una ricerca interiore

Il praticante di aikido dovrà prima o poi, con frequenze e metodi di insegnamento variabili da scuola a scuola, impugnare le armi: bokkentanto e jo. Il bokken (spada di legno) riprende la forma e le modalità d'uso di quella che tutti conoscono come "la spada del samurai" e se volete approfondire le vostre conoscenze potete anche consultare questo mio articolo. Il tanto è ugualmente di legno e rappresenta la minaccia portata da un pugnale, il jo è un bastone diritto lungo normalmente 128 cm adottato relativamente tardi nella panoplia del samurai: si pensa che sia stato introdotto dal maestro Muso Gonnosuke, fondatore dello stile di scherma Muso Shinto ryu, nei primi decenni del XVII secolo. Come è arrivato nel mondo dell'aikido? Ho una mia idea, e se non state buoni prima o poi ve la spiego.

 

In questa immagine ho anche riportato le misure standard (jusen) di un bokken e qualche termine tecnico

Bokken, tanto e jo vengono utilizzati non come armi di difesa contro un nemico, ma come strumenti di verifica del proprio apprendimento: si studiano le linee di evasione dalla minaccia, che ha caratteristiche diverse a seconda che venga rappresentata mediante il bokken, il jo od il tanto, si allenano i tempi di reazione o piuttosto di intervento dovendo il praticante mantenere sempre mentalità positiva e spirito di iniziativa non condizionati da alcun evento esterno, si ricerca accuratezza chirurgica in ogni movimento.

Vorrei ritornare in altra occasione sulle armi dell'aikido, ma per il momento farò solo quattro chiacchiere sull'arma per eccellenza del samurai: la spada che ormai quasi tutti conoscono: la katana. In realtà non è così semplice, la classe dei samurai non solo aveva l'abitudine e da una certa epoca anche l'obbligo di  portare sempre con se due spade, le cui caratteristiche e tipologie si sono evolute nel corso dei secoli, ma doveva conoscere ed avere la capacità di maneggiare con maestria ogni altro strumento atto ad offendere e difendere. Non ultimi il proprio corpo e la propria mente.

Quindi, signori, si va ad incominciare. Ma non aspettatevi niente di trascendentale: ne so qualcosa ma non posso certo definirmi un esperto del nihonto, la spada giapponese. Se volete saperne qualcosa di più, sempre senza scendere troppo sul difficile, leggete anche qui.


Il samurai era un guerriero feudale che dedicava la vita a difendere il suo signore, il suo popolo e la sua terra. Gli veniva assegnata una rendita in modo da liberarlo da ogni altra incombenza per lasciarlo pronto a rispondere in armi ad ogni appello. Essendo un nobile combatteva a cavallo, di conseguenza la sua spada era lunga, come quasi tutte quelle adottate dalle cavallerie di ogni epoca. Dai 75 cm in su, spesso intorno agli 80/90 per arrivare a volte ai 120, e molto curva per avere un maggiore effetto di taglio. Questo tipo di spada si chiamava, e si chiama tuttora, tachi.

Sembra che le prime lame di pregio siano arrivate dal continente e precisamente dalla Corea e dalla Cina, ma intorno all'VIII secolo gli artisti giapponesi iniziarono a sviluppare un nuovo tipo di lama: curva appunto, con una sezione pentagonale (shinogizukuri) che gli assicurava notevole robustezza accompagnata da buona elasticità, caratteristiche a volte contraddittorie ma entrambe necessarie. La prima lama conservata che presenti tutte le caratteristiche del nihonto appartiene al tesoro della famiglia imperiale e si chiama kogarasu maru, la spada del piccolo corvo a causa della forma della punta che ricorda appunto il becco di un corvo.

 

Le linee generali della lama rimasero sostanzialmente la stessa nei secoli successivi, salvo la soppressione del controfilo finale, un allungamento delle dimension, l'aumento del raggio di curvaturai e uno snellimento delle proporzioni.

 

 

Il tachi veniva appeso alla cintura con un sistema di lacci, visibili nella prima foto, passanti attraverso due anelli inseriti sul fodero, in posizione orizzontale e con il filo (parte convessa) in basso. Altre sistemazioni sarebbero state d'impaccio al guerriero, che indossava una pesante armatura costruita con criteri molto diversi da quelli occidentali.

 


 

Le nostre armature aderiscono spesso al corpo e hanno l'obiettivo di arrestare i colpi con robuste piastre di acciaio. Quelle giapponesi sono accompagnate da molti pannelli mobili di cuoio o legno, raramente metallo, laccati e rivestiti con un fitta nastratura, che deviano i colpi e ostacolano il taglio. Per contro gli ingombri dell'armatura sono notevoli e possono impacciare alcuni movimenti. Lo stesso maestro Tada, fonte di molte spiegazioni altrimenti inaccessibili, ha mostrato in passato l'antico modo di tirare shomenuchi, condizionato dalla presenza di un ingombrante elmo che impediva di alzare la spada sopra la testa. Meglio di ogni altra descrizione, propongo la foto di una armatura d'epoca, scattata in uno dei tanti musei di cui sono affezionato cliente.

 

Nell'armatura giapponese classica (o yoroi) l'elmo (kabuto) è costituito da una calotta di piastre metalliche, ha un ampio paranuca che scende spesso a coprire anche le spalle ed alette ai lati per deviare i fendenti, sui cui spesso veniva riportato lo stemma (mon) del guerriero.

 

Per essere riconosciuti nella battaglia i guerrieri di rango portavano anche una vistosa insegna (maedate) sul frontale dell'elmo. La protezione è completato da una maschera (menpo) che cela il volto.

 

Sono evidenti i pannelli mobili a protezione delle spalle (sode) e delle anche. Gli anelli sul pettorale servono ad assicurarvi le briglie in modo da poter condurre il cavallo col proprio corpo lasciando libere le mani per combattere.

 

A quello sul dorso si assicurava uno stendardo (sashimono) con i colori della casata o del comandante in capo. Come i praticanti di quest'arte noterebbero immediatamente, a questo tipo di armatura sono ispirate le protezioni indossate negli allenamenti e nelle competizioni di kendo .


 

Sono passati alcuni secoli... Saremmo arrivati quasi ai giorni nostri per la verità, perché la foto seguente viene dal celebre film Il trono di sangue del maestro Akira Kurosawa (1957), ma la ricostruzione è accurata.
Ci troviamo di fronte ad un guerriero di epoca imprecisata, ma comunque tarda rispetto alla precedente: per parlare nei nostri termini, diciamo intorno al 1670. E' la fase terminale della epoca detta Sengoku, o degli stati combattenti: un secolo di guerre ininterrotte che segnò il passaggio dalla decadente dinastia degli shogun Ashigaka a quella dei Tokugawa.
L'armatura è ormai di tipo quasi occidentale (namban), frutto degli scambi commerciali con olandesi e portoghesi iniziati nel XVI secolo e bruscamente interrotti circa un secolo dopo da un editto dello shogun.
La spada viene ancora appesa alla cintura in posizione orizzontale ma è diventata un handachi, un mezzo-tachi. Si è accorciata la lama e, la montatura - diversa - ha già la caratteristica nastratura (tsukamaki) sul manico.
Alla cintola il guerriero, un messaggero appena sceso da cavallo, porta un tanto: un robusto pugnale con lama tra i 20 ed i 30 cm, del tipo in grado di perforare una armatura (yoroidoshi).

Quanta acqua è passata sotto i ponti dalla foto precedente... tanta acqua che il povero Ihei Misawa, samurai senza padrone (ronin, uomo onda), come dimostra la manccanza della rasatura sul capo,  è costretto a fermarsi in un povero albergo di campagna in attesa che il fiume scenda e i traghettatori lo possano portare dall'altra parte.
Si tratta di un'opera sceneggiata da Akira Kurosawa, che non visse abbastanza a lungo da realizzarla ma che fu portata sullo schermo dopo la sua morte da Takashi Koizumi col titolo di Ame Agaru - Dopo la pioggia - con Akira Terao nel ruolo del protagonista.
Siamo ormai nel XVIII secolo e il samurai, che non è più perennemente in armi, indossa una tenuta molto simile a quella d'allenamento di uno yudansha di aikido, salvo che l'aori, il soprabito con i mon di famiglia, viene in aikido riservato ai grandi maestri e indosato solo in occasioni solenni e una minore lunghezza della hakama per evitare di infangarla. La spada è ormai diventata la katana che tutti conosciamo (o diciamo di conoscere...). Viene infilata alla cintola e non più appesa, e con il filo (parte convessa) sul lato superiore.
La spada lunga (daito) viene accompagnata non più dal pugnale ma da una spada corta (shoto), con lama tra i 30 ed i 60 cm, assieme alla quale forma una coppia: il daisho. La montatura non ha più i rinforzi in metallo, salvo che nella variante handachi: Il fodero è in legno laccato, di solito in colore nero che asseconda gli austeri gusti del samurai, con semplici finiture in corno. Anche la guardia (tsuba) che può da sola essere una autentica opera d'arte ed arrivare a prezzi da capogiro, è bene che sia bella ma semplice, essenziale.
La spada corta viene anche detta wakizashi (arma da lato) e non viene mai abbandonata dal samurai, che lascia invece il daito nell'apposita mensola (katanakake) quando si trova nella sua dimora o nel dojo, o la dà in custodia quando si trova ospite.
Sempre da Ame Agaru, ma in bianco e nero perché viene ricostruita in flashback una avventura giovanile del protagonista, ecco il maestro Tsuji Gettan, interpretato da Tatsuya Nakadai, all' interno del suo dojo.
Dal lato del kamiza si trova un katanakake, con la sua spada debitamente parcheggiata secondo l'etichetta più corrente (ci sono diverse scuole di pensiero quindi non stupitevi se la vedrete sistemata al contrario, ma per ora sorvoliamo). Infilato alla cintura, l'inseparabile wakizashi.

Che fine ha fatto la coppia dei vecchi tempi? Il tachi ed il tanto? Vengono ancora utilizzati occasionalmente.

Il tanto per ragioni pratiche visto che si può portare e nascondere con facilità, soprattutto nella variante kwaiken con lama inferiore ai 20cm adottata spesso anche dalle donne: in realtà anche l'attrezzo in legno utilizzato in aikido sarebbe più un kwaiken che un tanto.

ll tachi soprattutto come indipensabile accessorio dell'alta tenuta con cui si partecipa alle cerimonie.

Ancora da Ame Agaru, ecco l'iroso signore Shigeaki, intento a conversare con lo scontroso ronin con cui minaccia di stringere un'amicizia tanto irrequieta quanto profonda. Alle sue spalle l'attendente lo accompagna metro per metro, portando la spada in posizione verticale; per la verità qui si vede una katana, ma si tratta di una piccola imperfezione del constumista; solo il tachi, viene tenuto in posizione verticale, anche a riposo appoggiandolo sul tachikake. Da notare anche, segno di un certo nostalgico stile, che Shigeaki alla cintura porta il tanto e non il wakizashi.


Ma per dirla tutta, diversi tachi sopravvivono ancora ai giorni nostri sotto mentite spoglie: accorciati tagliandoli dalla parte del codolo (la lama viene allora definita suriage) e dotati di una nuova montatura, si sono adeguati ai tempi e continuano a prestare servizio. Solo alcuni particolari che non sfuggono all'esperto, ed eventualmente la firma - che se è rimasta dopo il taglio si trova sul lato opposto - permettono di identificare un tachi convertito in katana.

Rimarrebbero ancora tante cose da dire sulla spada giapponese e forse proverò a dirle: ma nulla può eguagliare la forza di un'immagine, che dovrà rappresentarla dura, pura e nuda. Eccola:

 

 

I nostri mon: il simbolo delle casate dei nostri maestri

Mon potrebbe essere tradotto con emblema, stemma, blasone: è insomma il simbolo della casata cui appartiene il samurai. Gli stemmi occidentali possono essere abbastanza complessi e la scienza che se ne occupa, l'araldica, è ardua: richiede la conoscenza profonda di un linguaggio specifico che sfugge ai profani. Per nostra fortuna i mon giapponesi sono abbastanza semplici, sobri. Ma è ora di vederli.  Il dojo Seiki fa parte dell'Aikikai d'Italia, associazione riconosciuta dalle autorità italiane con il nome per esteso di Associazione di Cultura Tradizionale Giapponese. L'Aikikai d'Italia, nel solco della tradizione giapponese, ha il suo mon; eccolo:

Questo simbolo, che ho avuto l'onore di disegnare, non nasce comunque dal nulla; non sarebbe stato nemmeno logico: l'Aikikai d'Italia si ricollega, attraverso l'Aikikai so Hombu, associazione "madre" fondata nel 1942 da Ueshiba Morihei a Tokyo (e riconosciuta a sua volta dal governo giapponese) alla tradizione nipponica. Al simbolo, o mon, dell'Aikikai so hombu mi sono ovviamente collegato per quello italiano. Devo dire che sospetto di avere lanciato una moda: diverse altre associazioni nazionali hanno seguito l'esempio. Da una parte fa piacere, dall'altro sento il dovere di mettervi in guardia: lo sapete che sono un pessimo soggetto, se prendermi come esempio diventasse davvero una moda...  ma torniamo al nostro mon:

La International Aikido Federation ha adottato un mon praticamente identico a quello dell'Hombu dojo, colore a parte: nell'originale i petali sono decisamente più chiari, azzurri e non blu, tendenti quasi al celeste. Molti yudansha potranno controllare all'interno del koshi ita della loro hakama ( se non sanno cosa è il koshi ita o addirittura l'hakama possono consultare il mio glossario alle lettere K ed H. Infatti i migliori fabbricanti di indumenti ed attrezzature per aikido hanno ricevuto dall'Hombu Dojo l'autorizzazione ad utilizzare il mon ufficiale nei loro prodotti.

Avrete immediatamente notato che ho parlato di petali: il mon rappresenta infatti un fiore di sakura ossia ciliegio. Un albero che produce fiori semplici ma che riuniti assieme ricoprono di bianche splendide cortine giardini e boschi: nell'epoca della fioritura l'intero popolo giapponese si arresta ed accorre ad ammirare lo spettacolo dei sakura in fiore. Ma dopo aver rappresentato in modo indimenticabile lo splendore e la forza della natura, dopo aver fatto il proprio dovere, il fiore cade, senza rimpianti. Niente paura, al tempo giusto ci saranno altri fiori e l'albero, o l'intero giardino, risplenderà di nuovo. E' Il fiore che rappresenta meglio di ogni altra cosa lo spirito del Giappone e del samurai, come dice il noto proverbio che ci ricorda gli ideali tradizionali del popolo giapponese:

Hana wa sakuragi,
Hito wa bushi

ossia, tradotto liberamente:

Tra i fiori il ciliegio,
Tra gli uomini il cavaliere

Mi perdonerete se ho usato il termine cavaliere, ma mi sembra quello più adatto a racchiudere il significato di bushi; normalmente si usa tradurre questo detto usando la parola samurai, ma come avete visto nell'originale non c'è. Ma andiamo avanti: anche il mon dell'Aikikai so Hombu si è ispirato a qualcosa di precedente; e precisamente ad un antico mon, utilizzato da molte e nobili famiglie; eccolo:

 

 

 

 

In questo ritratto ufficiale del grande maestro Ueshiba Morihei, fondatore dell'aikido, eseguito intorno al 1960 e proveniente dal libro fotografico celebrativo del centenario della sua nascita, pubblicato dall'Hombu Dojo nel 1983, possiamo vedere l'utilizzo più immediato del mon di famiglia.

Lo troviamo sopra l'aori, una sopravveste che veniva indossata dai samurai sopra gli abiti. Il mon viene ripetuto ai lati del bavero e sulle maniche.

Bisogna aggiungere che alcuni anni fa, quando l'aikido era ancora in fase pionieristica, diversi "maestri" italiani avevano preso l'abitudine di presentarsi alle dimostrazioni in pubblico o addirittura alle lezioni in alta tenuta, con l'aori e - ovviamente - muniti di apposito mon.

Certamente, l'abito tradizionale giapponese viene utilizzato ancora oggigiorno in occasioni speciali o da parte di persone di rango. Viene tuttavia considerato un abito da indossare con la dovuta cautela ed una certa parsimonia.

A detta del maestro Hosokawa, che trovava tutta la faccenda molto divertente, l'uso indiscriminato dell'aori e del mon da parte degli occidentali ha tra i giapponesi lo stesso effetto che potrebbe avere tra di noi quello di un signore giapponese che si presentasse ad una cena informale tra amici in pizzeria munito di abito a code, cappello a cilindro, bastone col manico d'avorio e mantello alla Mandrake. Ossia l'effetto di rendere immediatamente e irrimediabilmente ridicola la persona abbigliata in quel modo.

 

 

Ci portiamo ora, col dovuto rispetto, alle spalle di o sensei ed osserviamo quest'altra immagine. Proviene dalla stessa fonte ma questa volta è una foto, scattata nel 1967 per preparare una pubblicazione dedicata al Maestro il cui titolo suonava come "Tecniche trascendenti".

Vediamo che un altro mon è riportato dietro l'aori, un poco sotto il colletto. E' importante, da un punto di vista pratico, rendeva distinguibile il lignaggio della persona anche vedendolo passare da dietro, ma lo è anche per conoscere un piccolo retroscena di una tecnica di aikido.

In quel punto, per concretizzare con un atto materiale la propria vittoria, sfregiando il mon del nemico vinto, veniva dato il colpo di grazia al samurai sconfitto in duello od in combattimento.

Un "ricordo" di questa tecnica di combattimento è all'origine della tecnica di aikido chiamata ushirokiriotoshi, croce (molta) e delizia (poca) di chi si prepara per l'esame di 1° kyu.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nella foto in basso, pubblicata su Aikido anno XII, Novembre 1983 (il primo numero di Aikido che il destino mi chiamò a curare....) vediamo appunto il maestro Hiroshi Tada nell'esecuzione di un ushiro kiri otoshi: taglio da dietro con rovesciamento, ossia con sollevamento per aria delle gambe dell'uke mentra il capo cade al suolo.

Naturalmente se si enfatizza il "taglio" che qui il maestro esegue sul viso quindi tagliando con movimento a tirare mentre per dare il colpo definitivo sul punto in cui è collocato il mon si eseguirebbe con l'altra mano un movimento di penetrazione a spingere con il tanto (pugnale).

La foto ne accompagna altre che riconosco come mie e scattate nel 1982 al raduno estivo di Coverciano (ho memoria, appunto, fotografica).

Ma questa non è mia e ne ignoro la provenienza, si trovava in archivio e senza alcuna indicazione. Presumibilmente fu scattata dal compianto Giovanni Granone negli anni 70: una foto bella e fortunata, perché fotografare l'aikido non è facile e un pizzico di fortuna aiuta, ma anche scattata con presenza di spirito (il ki, sempre lui...), senso della distanza e della posizione, scelta di tempo impeccabile.

Abbiamo detto che l'aori con il mon di famiglia non è cosa da tutti: Ueshiba Morihei lo portava spesso, ma ricordiamoci che si trattava di una persona per molti versi di altri tempi. Nacque nel dicembre del 1883 in un piccolo villaggio di pescatori dove a malapena si sapeva che il "mondo" del samurai stava cambiando per l'arrivo degli stranieri e che in breve sarebbe addirittura scomparso, lasciando per nostra fortuna numerose e tangibili tracce ed una cospicua eredità, che comprende l'aikido, che abbiamo il dovere di tramandare a chi verrà dopo di noi.

Oggigiorno l'aori è un indumento soprattutto da cerimonia, si indossa ad esempio durante i matrimoni e le cerimonie ufficiali. Ma non basta l'occasione per avere un mon: occorre discendere da un lignaggio i cui membri fossero autorizzati all'utilizzo del blasone familiare.

In occasione della consegna del Budo korosho, una importante onoreficenza riservata a chi si è particolarmente distinto nel mondo delle arti marziali, ecco il maestro Hiroshi Tada, anche per il resto debitamente abbigliato per l'occasione, indossare l'aori con il suo mon.

La foto proviene da Aikido, anno XXIV, aprile 1994. ed è stata scattata da Giovanni Capannelli, autore dell'articolo. All'epoca risiedeva a Tokyo ove praticava presso il dojo Gessoji del maestro Tada, ed era il suo traduttore di fiducia.

Non ho ancora avuto modo di identificare questo mon, la risoluzione della foto non è sufficiente, ma datemi tempo. Le pubblicazioni specializzate, che hanno una certa diffusione perché i mon si prestano molto ad elaborazioni grafiche e sono comunque molto belli da vedere, li suddividono per tipologia e non per il nome delle famiglie: sarebbe troppo complicato, molti stemmi erano utilizzati da più rami o più famiglie. Per rintracciare l'origine di un mon quindi bisogna aver bene compreso di quali elementi è composto e ricercarlo nella giusta categoria.

 

Non ho avuto invece particolari problemi ad identificare il mon del maestro Hosokawa, il suo significato e le sue origini: mi ha detto tutto lui...  Rappresenta il sole con gli 8 pianeti e visto che le origini certe della famiglia Hosokawa risalgono all'VIII secolo circa della nostra era questo dimostra anche l'avanzamento della scienza astronomica in Giappone. I pianeti più esterni sono stati scoperti in occidente solo in epoca recente, prima in seguito a calcoli matematici per identificare le origini delle perturbarzioni nelle orbite dei pianeti interni, e solo dopo avvistati al telescopio. Come è noto il nono pianeta, Plutone, è stato scoperto da Tombaugh solo in epoca relativamente recente.

 

Per la verità il maestro ci ha sempre scherzato sopra, sostenendo che era il mon della Telecom (i giovani non capiranno: abituati alla tastiera dei gsm non ricordano o nemmeno hanno mai visto il disco numeratore dei vecchi telefoni).

E notoriamente non ama nemmeno la luce dei riflettori, quindi è particolarmente arduo avvistarlo con l'aori ed il mon degli Hosokawa.

Ma ci vengono in aiuto tanti piccoli oggetti della vita "quotidiana" del samurai., che potremmo più verosimilmente immaginare indossati dal maestro. Ecco ad esempio la tsuba (guardia) di una spada, decorata col motivo del suo mon. E ora che lo conosciamo, cercandolo con attenzione, potremmo trovare questo mon un po' dappertutto. In circa 1200 anni la famiglia Hosokawa ha fatto molto parlare di se; basti pensare che il più famoso samurai di tutti i tempi, Miyamoto Musashi, era al servizio di un ramo degli Hosokawa.

Passiamo al maestro Fujimoto: per la verità non sono sicuro che quello che vedete sia il suo mon di famgilia, anche perchè l'albero genealoogico del maestro è un po' complesso. Di sicuro è il mon che utilizza per la sua scuola, e di sicuro è un mon di antiche origini.

 

 

 

Qui potete potete vedere l'originale, tratto dal solito manuale di araldica giapponese. Prometto che gli chiederò informazioni ad una delle prossime occasioni.

 

 

 

 

Naturalmente anche il maestro di daito ryu Takeda Sokaku, l'arte che ha dato i natali all'aikido, era di famiglia samurai, discendente addirittura dei Minamoto, famiglia che per secoli ha avuto il dominio sull'intero Giappone. Il suo mon di famiglia, che ora è l'emblema della scuola, infatti spesso anche definita semplicemente Takeda ryu, è lo yotsume, il simbolo dei "quattro occhi".

 

 

 

Ma non dimentichiamoci di o sensei, la persona che ci ha dato l'immenso dono dell'aikido; abbiamo già intravisto il suo mon, vediamolo ora nel dettaglio e apprendiamone il significato: si chiama in gergo araldico takaha (piume di falco).

E per oggi credo proprio che sia tutto.

 

 

I mon antichi provengono da

Japanese design Motifs, 4260 illustration of japanese crests
compiled by the Matsuya Piece Goods Store
Dover Publications, New York, 1972
ISBN 0-486-22874-6

Il nome sul keikogi: in giapponese, naturalmente

Il nome - e qualche volta il cognome - del praticante di aikido viene scritto sulla manica sinistra del keikogi, in verticale, utilizzando normalmente i colori nero o rosso.

 

Gli yudansha invece usano scrivere il proprio cognome sul lato destro dell'hakama all'altezza del'anca, normalmente in giallo, a volte rosso o bianco.

Naturalmente scriverlo in giapponese da un certo tono cui è difficile rinunciare.

Gli yudansha non usano particolarmente scrivere il nome sulla cintura come in altre arti marziali, verrebbe in ogni caso coperto dalla hakama.

Spesso non è possibile ottenere una trascrizione perfetta dei nostri nomi perché non tutti i suoni della lingua italiana sono disponibili nell'alfabeto katakana, adottato per trascrivere in giapponese le parole di origine straniera. Cercate allora di andarci vicino, contentandovi di Aresanutora per Alessandra (la u praticamente non si pronuncia) oppure Beteriko per Federico. Troverete sotto alcuni esempi.

I nomi e cognomi giapponesi non si scrivono con i caratteri katakana, vengono invece utilizzati gli ideogrammi kanji. I nomi di famiglia vengono in età moderna ereditati, anticamente era costume cambiarli spesso.

Il nome proprio è talvolta già appartenuto ad un antenato, ma può essere trascritto con ideogrammi che rendano lo stesso suono ma esprimano un concetto diverso.

Di conseguenza non è possibile quando si è presentati ad una persona comprendere come si scrivono le sue generalità. E' una delle ragioni per cui i giapponesi usano molto i biglietti da visita. Anticamente era necessario scandire nome e cognome precisando per ogni ideogramma "come si scrive nella parola...".

I katakana sono divisi in 10 gruppi: 1 formato dalle 5 vocali e 9 da altri suoni accoppiati alle vocali; tenete presente che alcuni accoppiamenti mancano non venendo utilizzato quel suono nella lingua giapponese, non abbiamo quindi 50 katakana nella tabella. In realtà anche gli altri accoppiamenti erano previsti, ma non essendo stati di fatto utilizzati sono diventati obsoleti e la maggior parte dei giapponesi non li riconoscerebbe vedendoli.

I 10 gruppi utilizzano i seguenti suoni di base:

 

vocali

k

s

t

n

h

m

y

r

w

 

L'ordine, all'interno di ogni gruppo, segue quello delle vocali giapponesi che non è a-e-i-o-u come nelle lingue occidentali, che ereditano dal latino sia l'alfabeto che molte regole ed usanze, ma a-i-u-e-o.

 

a

i

u

e

o

ka

ki

ku

ke

ko

sa

shi

su

se

so

ta

chi

tsu

te

to

na

ni

nu

ne

no

ha

hi

fu

he

ho

ma

mi

mu

me

mo

ya

yu

yo

ra

ri

ru

re

ro

wa

wi

we

wo

 

Non sempre il gruppo è omogeneo nella pronuncia; abbiamo per esempio il quarto gruppo composto da ta, chi, tsu, te, to, ove abbiamo evidenziato i due elementi con pronuncia anomala. Inoltre alcuni elementi linguistici - comunque vengano scritti - si pronunciano in modo differente a seconda della loro collocazione nella frase come ad esempio hara, che diventa Shimabara o Tsukabara.

Un gruppo secondario di suoni impuri derivati dai principali, ad esempio ga che deriva da ka, comprende altri 5 gruppi e 23 caratteri. Derivano come detto dai  precedenti ma si aggiunngono segni supplementari di distinzione (dyakuten). I suoni di base sono solamente 5: g, z, d, b, p.

Recentemente sono stati aggiunti a questo gruppo altri fonemi, per rendere i suoni particolari di alcune lingue. Ancora una volta mancano alcuni accoppiamenti e le pronunce di gruppo non sono sempre omogenee.

 

ga

gi

gu

ge

go

za

ji

zu

ze

zo

da

de

do

ba

bi

bu

be

bo

pa

pi

pu

pe

po

 

E ora, alcuni esempi.

Per comporre il vostro nome, copiate dalle tabelle i katakana che vi servono ed incollateli in un programma per trattamento testo. Dovrebbero essere riconosciuti automaticamente, in caso contrario è un problema di configurazione del computer facilmente risolvibile dal "pannello di controllo"del sistema operativo.

 

Potrete così convertirli nelle dimensioni e nel colore che preferite. Li userete come base per scriverli a mano con un pennarello indelebile oppure ricamarli (in verticale come mostrato sotto) curando di dare loro un aspetto un po' più "fatto a mano" rispetto ai caratteri di stampa qui utilizzati.

Attenzione ai diakuten: solo esaminandoli con attenzione potrete rendervi conto delle differenze tra l'uno e l'altro.

Per ragioni evidenti la soluzione del pennarello è improponibile per l'hakama.

 

Aresan(u)tora

Bederiko

Rikar(u)to

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